Cultura

“Da Gramsci a Gentile. Esiste l’egemonia culturale?”: il dibattito al Senato

25
Settembre 2024
Di Ilaria Donatio

Quando Antonio Gramsci, nella prima metà del Novecento, osservava le contraddizioni della società in cui viveva, l’egemonia culturale era rappresentata dalla borghesia. Il rapporto tra l’egemonia culturale della borghesia e la subalternità del proletariato è oggetto di analisi di uno dei Quaderni di Gramsci scritto durante la sua permanenza in carcere sotto il regima fascista: il numero XXV, intitolato “Ai margini della storia”. E qui Gramsci spiega che le classi subalterne sono tali perché non hanno il potere di auto-rappresentarsi di fronte al divenire della storia.

Così, Antonio Gramsci fu sì acuto ideologo, lucido pensatore e intellettuale di prim’ordine, ma l’idea gramsciana dell’intellettuale organico in cui coincidono cultura e politica, trova il suo riferimento più rigoroso in Giovanni Gentile. E lo stesso nucleo centrale del suo pensiero – che la conquista della società passasse dalla conquista della cultura – fu anch’essa squisitamente gentiliana, non solo sul piano filosofico ma anche sul piano pratico, se si considera che quel progetto fu perseguito attraverso la riforma della scuola, l’organizzazione della cultura e l’enciclopedia italiana.

Ne è convinto Francesco Giubilei che cita Marcello Veneziani. Insieme al direttore scientifico della Fondazione An, al convegno “Da Gramsci a Gentile. Esiste l’egemonia culturale?”, ieri sera, nella Sala Koch di Palazzo Madama, erano presenti Lucio Malan, il senatore Roberto Menia, il presidente della Fondazione An Giuseppe Valentino, Claudio Velardi, direttore de Il Riformista e il presidente del Senato Ignazio La Russa. Luca Telese moderava e stimolava il dibattito.

Insomma, l’idea gramsciana dell’egemonia culturale «si situa tra la teoria e l’esperienza di Gentile e poi di Bottai». Ma la differenza tra le due culture politiche, secondo Giubilei, risiede senza dubbio nel fatto che mentre la sinistra è stata in grado di «costruire una propria organizzazione della cultura anche tramite spoils system», la destra – pur avendone una – non l’ha mai realmente «organizzata».

Passaggio interessante di cui, tra l’altro, lo stesso ministro della Cultura, Alessandro Giuli, ha scritto nel recente saggio, “Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea: l’egemonia culturale va intesa come “agire sul piano culturale”, per penetrare la società civile nel segno della più autentica strategia gramsciana. 

Ed ecco quello che potrebbe essere un impegno da portare avanti da destra per Giubilei: «Invece di condurre una controegemonia (sostituendo quella di sinistra), costruire una politica culturale da destra». Questo a patto di eliminare un certo «complesso di inferiorità che spesso ha distinto il mondo conservatore» e di non rinunciare alla «battaglia» delle battaglie: «Quella della libertà: che in ogni ambito il mondo della destra dovrebbe fare».

E se Giuseppe Valentino, Presidente della Fondazione An, indica come strada maestra per uscire dall’impasse della polarizzazione, «l’impegno nell’interesse della comunità che apparteneva sia a Gramsci che a Gentile, seppur con visioni diverse», Luca Telese osserva che «l’egemonia è sempre quella che esercita l’altro», a destra come a sinistra, e che «entrambi i popoli» si cimentano purtroppo in manifestazioni «d’appartenenza da curva sud».

Sul punto, Claudio Velardi – storico esponente prima del Partito Comunista Italiano, poi nel Pds, quindi dei Democratici di Sinistra, oggi direttore riformista – chiarisce subito di pensare tanto che «la cultura woke sia dannosa» quanto «di non rischiare certo derive fasciste» con il governo Meloni: siamo nell’epoca delle polarizzazioni politiche  e il direttore de Il Riformista non pensa che «la polarizzazione faccia bene al Paese».

Il punto, dice, è che il «problema dell’egemonia culturale se l’è sempre posto qualsiasi classe politica volesse consolidare quel potere che aveva raggiunto»: Gramsci ha applicato questo concetto a una forza che nasceva come rivoluzionaria e che – abbandonando la strada della rivoluzione – ha avuto poi il problema di come conquistare e mantenere il consenso». 

Ora, il fenomeno «globale della sinistra che perde le elezioni» fa riflettere, conclude Velardi: perché se alla «crescita dell’egemonia culturale, non crescono anche i voti, allora anche l’egemonia culturale di fatto non esiste». E allora, se è vero che non esistono ricette, l’unica strada sarebbe quella di «aprire i propri confini, invece di polarizzare, e lavorare sulla propria identità (che appartiene più al passato che non al mondo presente)».

A tirare le somme e concludere il dibattito, interviene il presidente del Senato, Ignazio La Russa che, pur ammettendo di conoscere meglio Gentile di Gramsci, definisce entrambi «esempi importanti di egemonia culturale illuminata» Quest’ultima – dice – «non può essere tale da impedire la pluralità delle voci, perché può esserci una prevalenza ma non può mai esserci l’assenza della pluralità».

E conclude: «Io credo che non ci sia niente di male a volere abbattere le casematte, a lasciare pianure, a lasciare luoghi aperti alle incursioni di tutti, senza che nessuno possa avere la pretesa di chiudere la bocca agli altri o di limitare alcune espressioni e alcuni filoni culturali».

In questo senso, sarebbe senz’altro d’accordo anche il ministro della Cultura, Alessandro Giuli che nel suo saggio, “Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporaneachiarisce l’accezione in cui andrebbe intesa l’egemonia culturale: come agire sul piano culturale per penetrare la società civile nel segno della più autentica strategia gramsciana. 

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