Fill the gap

Digitale: come i Comuni stanno cambiando. La sfida dell’inclusione

04
Dicembre 2025
Di Giuliana Mastri

La transizione digitale dei Comuni italiani non è più un’ipotesi di lavoro: è un cantiere aperto che sta ridisegnando il modo in cui si governa la città. L’«Indagine sulla transizione digitale nella PA locale 2025» realizzata da Gruppo Maggioli e The Innovation Group, presentata a Napoli nell’ambito di Perspective Smart City, fotografa amministrazioni locali sempre più connesse, in cloud e integrate con le piattaforme nazionali. Ma la domanda, per chi vive nei quartieri, resta semplice: questa rivoluzione si vede davvero sotto casa? Comunidigitali_Trasformazione_u…

Negli ultimi dodici mesi, due Comuni su tre hanno lavorato sull’adozione delle principali piattaforme pubbliche – SPID e CIE per l’identità digitale, pagoPA per i pagamenti, ANPR per l’anagrafe, app IO per i servizi – coinvolgendo il 66% degli enti. Il 63% ha aggiornato le infrastrutture e avviato o completato la migrazione al cloud, il 47% ha dematerializzato processi e servizi, il 37% ha iniziato a integrare dati e sistemi e un ulteriore 25% ha lavorato in modo specifico su usabilità e accessibilità delle proprie interfacce digitali. Solo il 4% del campione dichiara di non aver sviluppato alcun progetto digitale nell’ultimo anno: una minoranza ormai residuale.

Questa spinta locale si inserisce in un quadro nazionale di forte crescita degli investimenti ICT nella PA: secondo le stime citate nell’indagine, la spesa del settore pubblico è passata da 3,8 miliardi di euro nel 2022 a 4,6 miliardi nel 2023, con una previsione oltre i 5 miliardi nel biennio 2024–2025 e quote crescenti destinate proprio a cloud, sicurezza e digitalizzazione dei servizi. Non è solo un aggiornamento tecnologico: è l’ossatura della futura città “rigenerata”.

Un tassello decisivo è la Piattaforma Digitale Nazionale Dati, la PDND, l’infrastruttura che permette agli enti di scambiarsi informazioni in modo automatico, senza trasformare il cittadino in «fattorino dei documenti». Nell’indagine risulta che l’86% degli enti del campione allargato è già fruitore della PDND, in crescita rispetto al 2024. Tra i benefici percepiti, il 72% segnala la riduzione dei tempi di accesso alle informazioni, il 64% la semplificazione degli iter amministrativi, il 30% il superamento dei controlli sulle autocertificazioni.

L’aggancio con la rigenerazione urbana è diretto: progettare un intervento di social housing, pianificare il riuso di un edificio dismesso o riorganizzare la mobilità di un’area critica richiede dati aggiornati su popolazione, servizi sociali, patrimonio edilizio, rischi ambientali. Non a caso, tra i servizi già erogati o pianificati via PDND rientrano l’accesso a punti di interesse turistici e culturali e le informazioni per la pianificazione territoriale. Quando queste integrazioni funzionano, la città smette di essere governata a colpi di percezioni e comincia a basarsi su evidenze misurabili.

Sul fronte infrastrutturale, il cloud è ormai una scelta strutturale. Il 28% degli enti ha già spostato tutti gli applicativi e dichiara che ogni nuovo sviluppo sarà “cloud native”; un ulteriore 41% ha trasferito in cloud la maggior parte dei sistemi. La maggioranza si affida a provider italiani e a soggetti in house o locali, mentre solo una quota minoritaria ricorre ai grandi operatori globali. Questa architettura sostiene molti dei progetti smart city già operativi: controllo del traffico, ZTL digitali, gestione energetica degli edifici pubblici, sistemi di monitoraggio della qualità dell’aria e dell’ambiente.

Già nel 2022, ricordano i dati richiamati dall’indagine, il 39% dei Comuni sopra i 15.000 abitanti aveva avviato almeno un progetto di città intelligente, con un mercato in crescita del 23% in un solo anno. Senza infrastrutture digitali robuste – cloud, interoperabilità, cybersecurity – la rigenerazione urbana rischia di fermarsi alla dimensione estetica: marciapiedi nuovi, piazze riqualificate, qualche pista ciclabile, ma poca capacità di misurare e governare nel tempo l’impatto di questi interventi. Sensori, piattaforme di analisi dati e persino i gemelli digitali dei quartieri servono proprio a questo: rendere le trasformazioni urbane gestibili e reversibili, invece che una tantum.

Il vero collo di bottiglia, però, si trova fuori dai palazzi comunali: sta nelle competenze digitali della popolazione. Secondo i dati Eurostat riportati nel documento, nel 2024 il 70% dei cittadini dell’Unione europea tra i 16 e i 74 anni ha utilizzato almeno un servizio di e-government; in Italia la percentuale scende al 55,1%, penultimo valore in Europa, davanti solo a Bulgaria e Romania. Il problema non è solo l’accesso alla rete, ma la capacità di usarla.

I dati Istat sulla relazione tra cittadini e ICT mostrano un’Italia in cui cresce l’utilizzo di Internet, soprattutto tra gli anziani, ma con forti divari socio-demografici e territoriali. I «Quaderni di Repubblica Digitale» stimano che circa il 54% della popolazione abbia competenze digitali inferiori al livello base, a fronte di un obiettivo europeo che punta all’80% di cittadini con competenze almeno di base entro il 2030. Un’analisi recente sui dati Istat 2024, citata nell’indagine, segnala inoltre che il 36,1% degli italiani presenta competenze digitali insufficienti, con criticità più accentuate nel Mezzogiorno.

Se si incrociano questi numeri con le politiche di rigenerazione urbana, il rischio è evidente: quartieri digitalmente avanzati ma socialmente esclusivi. Se i servizi per l’abitare, i bonus per l’efficientamento energetico o l’accesso ai servizi sociali di prossimità passano sempre più dal digitale, chi ha competenze deboli rischia di rimanere intrappolato tra burocrazia online e marginalità territoriale, mentre le nuove infrastrutture finiscono per premiare chi è già più forte.

Alle spalle di questa corsa c’è il motore del PNRR. Per il 60% degli enti intervistati, i finanziamenti del Piano sono «fondamentali» per avviare e proseguire i progetti digitali; un altro 30% li considera «importanti ma non sufficienti». In totale, il 90% riconosce al PNRR un ruolo centrale. Ma quando si chiede che cosa succederà dopo il 2026, le risposte si fanno più incerte: il 51% teme soprattutto la mancanza di personale per gestire i progetti; il 36% segnala la difficoltà di garantire la sostenibilità nel medio-lungo periodo; il 32% indica il rischio di eccessiva dipendenza dai fornitori esterni. Solo una minoranza di amministrazioni ha già messo in campo misure strutturate – dall’uso di fondi interni a nuovi modelli di sourcing, fino a programmi continuativi di formazione – per affrontare il «dopo PNRR».

Anche sul fronte della sicurezza informatica il quadro è complesso. I Comuni individuano come principali minacce l’errore umano (67%), i ransomware e altri malware (48%) e la disinformazione (37%). Tra i fattori che indeboliscono le difese emergono la carenza di personale specificamente dedicato alla cybersecurity (49%), la mancanza di competenze tecniche adeguate (45%) e una cultura della sicurezza ancora fragile (31%).

L’intelligenza artificiale, al momento, appare più come una promessa che come una realtà consolidata. Circa un terzo degli enti non la utilizza e non è interessato a farlo, un altro terzo non la usa ma ha avviato percorsi di formazione; solo una quota ridotta dichiara un uso avanzato o consolidato di strumenti di AI generativa, agenti intelligenti e piattaforme di analisi dei dati. E tuttavia proprio AI, sicurezza e buona governance dei dati sono indicate dagli osservatori come leve centrali per la città del futuro, in cui la rigenerazione urbana significa monitorare l’uso degli spazi pubblici, modulare i servizi in base ai flussi reali, ridurre consumi energetici e inquinamento, sperimentare forme più profonde di partecipazione civica.

L’impressione, a leggere in filigrana tutti questi numeri, è che quella raccontata dall’indagine non sia una storia di soli server e API, ma una storia molto concreta sulle città in cui viviamo. L’interoperabilità e la PDND permettono di incrociare dati su fragilità sociali, disponibilità di servizi, mobilità e patrimonio abitativo, ponendo le basi per politiche di rigenerazione mirate, dal social housing ai servizi di prossimità. Il cloud e le infrastrutture digitali sono il «retrobottega» delle smart city: senza sistemi stabili, i progetti di illuminazione intelligente, controllo del traffico, gestione del verde o monitoraggio ambientale restano esperimenti isolati.

La vera linea di frattura passa però dalle competenze digitali dei cittadini: è lì che si decide se la rigenerazione includerà o escluderà. Se chi abita nei quartieri più fragili non riesce a utilizzare i servizi online, le nuove infrastrutture rischiano di ampliare disuguaglianze già esistenti. Infine, governance, sicurezza e capacità di gestire il «post PNRR» determineranno se le trasformazioni avviate resteranno nel tempo o si sgretoleranno alla prima crisi, economica o politica.