Politica

Post-primarie. Il nuovo Pd versione Elly sarà tutto nuovo, ma rischia di restare all’opposizione

27
Febbraio 2023
Di Ettore Maria Colombo

Nel Pd ora si corre. Arriva il ciclone Elly Schlein. I cambiamenti attesi: segreteria e capigruppo
Nel Pd, ora, si corre. Cinque mesi faticosissimi per celebrare il congresso e pochi giorni per cambiare volto, e radicalmente, al partito. Ieri, alle 15, il passaggio di consegne al Nazareno. Enrico Letta, segretario uscente, regala a Elly Schlein, segretario entrante (ma la proclamazione ufficiale arriverà solo il 12 marzo in seno all’Assemblea nazionale, barocchismi da Statuto), un melograno, “simbolo di prosperità, fortuna e salute” le dice (ovviamente il melograno è rosso). La Schlein parla di “metodo condiviso e plurale” e di “linea politica chiara e comprensibile”. Gli organigrammi interni, ovviamente, saranno però i primi, a cambiare. Elly ha promesso a Bonaccini, nella telefonata di congratulazioni in notturna, che la segreteria sarebbe stata ‘unitaria’, ma sarà difficile mantenere i buoni propositi della vittoria. Al massimo, in Segreteria, ci sarà posto per uno, o due, rappresentanti della mozione Bonaccini, e neppure è detto. Tra i fedelissimi di area Schlein è dato per certo l’ingresso in segreteria di Micaela Di Biase, moglie di Franceschini (sostenitore di Schlein con Zingaretti, Orlando, Provenzano) delle sardine Jasmine Cristallo e Mattia Santori, di Chiara Braga e Chiara Gribaudo, parlamentari che facevano parte anche dell’esecutivo di Letta. Per il ruolo di vicesegretario Schlein potrebbe promuovere Marco Furfaro, mentre Alessandro Zan è in pole per il ruolo di capo-segreteria, quello che fu Marco Meloni per Enrico Letta. E poi Marco Sarracino, a capo dell’organizzazione del partito, e Stefania Bastoldi, ex sindaco di Crema. Previsto l’ingresso inoltre di apporti provenienti da Articolo 1, con Roberto Speranza, Nico Stumpo e Arturo Scotto tra i papabili.

A Bonaccini viene prospettata la carica (onorifica) di presidente del partito, cioè dell’Assemblea nazionale”, ma lui non chiede nulla”, mettono in chiaro i suoi collaboratori. Difficile che, tra i sostenitori di Bonaccini al congresso, il sindaco di Firenze Dario Nardella, a rappresentare gli amministratori, e Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo con cui Schlein ha rapporti di lunga data, entrino in squadra. Troppo esposti nel fronte pro-Bonaccini.

Il nodo più intricato da risolvere è la partita dei capigruppo parlamentari. Al congresso si sono schierati con Schlein solo 41 tra senatori e deputati, su 107 complessivi. Sessantasei hanno scelto Bonaccini. Dopo il voto delle primarie ci sarà un assestamento, con conseguente migrazione di parlamentari verso la neosegretaria. A favore della conferma di Debora Serracchiani, oltre alla gestione del caso Cospito, c’è il fatto che Schlein non può permettersi di passare da due donne a due uomini. Alla Camera il nome alternativo alla Serracchiani è quello di Peppe Provenzano, vicesegretario uscente. Al Senato per il dopo Malpezzi si affaccia l’ipotesi Francesco Boccia. Uno dei due deve mollare ed è più facile che resti Serracchiani ma Schlein potrebbe anche non concedere nessun capogruppo alla mozione Bonaccini. In tal caso sia il presidente dei senatori (Boccia), che la presidente dei deputati (in pole c’è Chiara Gribaudo) toccherebbero alla segretaria. La Schlein vuole “tenere unite le culture del Pd ma senza rinunciare alla linea chiara”. Il problema è che il Pd sta per cambiare pelle.

Tutte le ‘prime volte’ della nuova era Schlein
Non è solo la prima volta di un segretario donna alla guida del Pd. Non è solo la prima volta in cui il voto degli iscritti non corrisponde a quello degli elettori. Non è solo la prima volta che un leader dem non proviene da una delle due famiglie classiche e storiche che hanno fatto la storia, sin dalla nascita, del Pd, quella del Pci-Pds-Ds e quella del PPI-Margherita. E’ anche la prima volta che nuove istanze (‘issues’ dicono i colti) vengono poste all’attenzione e in cima all’agenda di un partito che la parola storica – ‘sinistra’ – l’aveva sempre intesa in modo classico, storico, agganciandola al mondo del lavoro. Ecologista, femminista, pacifista (già ci si chiede, qui, quale sarà la sua posizione concreta sull’invio delle armi in Ucraina che il Pd ha finora sempre mantenuto, un ‘sì’ convinto che, ora, potrebbe cambiare a favore di un accento, un po’ peloso, sul privilegio della ‘via diplomatica’), la Schlein è anche la prima segretaria apertamente lesbica (o, almeno, bisessuale) di un partito italiano. E pure questo è un dato ‘rivoluzionario’.

La Schlein vorrebbe rappresentare – in modo politicamente ‘gender fluid’ – la fusione della ‘nuova’ sinistra (quella dei diritti civili) che si fonde con la ‘vecchia’ (una presunta tradizione massimalista e radicale che, peraltro, il Pci non ha mai avuto, ma questo sarebbe tutt’altro discorso…), riscoprendo i ‘nuovi’ temi (l’ecologismo, il femminismo, il pacifismo) e coniugandoli con la ‘vecchia’ fissazione della sinistra, quella per il lavoro, ma coniugata ai nuovi tempi (lo sfruttamento, i poveri, le leggi che hanno aumentato la precarietà a partire dal Jobs Act di epoca renziana, o quelli che la Schlein chiama “i decreti Poletti”, i nuovi lavori dei nuovi sfruttati, i poveri, gli emarginati, ma anche gli immigrati, gli ultimi della società).

Un partito che ricorda il Pci sì, ma di Ingrao…
Insomma, anche se nelle sezioni vengono ritirate fuori e rimesse sul piedistallo le foto di Berlinguer (è successo, per dire, ieri a Firenze), il Pd della Schlein sa tanto del Pci di Pietro Ingrao.

Se il Pci di Berlinguer – come poi, mutatis mutandi, il Pd di Renzi – era un vero ‘partito della Nazione’, il Pd della Schlein è un (perfetto, si capisce) partito di eterna opposizione. Un partito – e una leader – che anelano a un ‘mondo perfetto’, dal loro punto di vista, in cui, con raziocinio illuministico e foga neoromantica, le ong salvano i migranti e tutti i migranti vengono accolti a braccia aperte, con flussi dilaganti e soverchianti (abrogando la Bossi-Fini), tutte le droghe leggere vengono liberalizzate (abrogando la Fini-Giovanardi), tutti i contratti di lavoro vengono regolarizzati (abrogando i contratti precari ma anche il Jobs Act e introducendo il salario minimo), tutti i diritti civili vengono rispettati, anzi ampliati (introducendo il ddl Zan, il matrimonio gay e pure la maternità surrogata), tutti i cambiamenti climatici non possono che produrre energia pulita e buona, limitando tutte le energie tradizionali, e tutti gli sforzi della comunità internazionale devono essere rivolti alla pace e la soluzione diplomatica della crisi ucraina (bloccando ogni nuovo invio di armamenti), in una visione ‘irenica’ della geopolitica e anche della logica, in cui l’antifascismo non è solo un mantra ripetuto fino allo sfinimento, ma un vero tratto identitario.

Le primarie aperte hanno cambiato pelle al Pd
Con un milione e rotti di votanti (53,8% Schlein, 46,2% Bonaccini) che ha ribaltato il voto tra gli iscritti (52,9% per il secondo, 34,8% alla prima su 151.530 iscritti: nel 2019 votarono in 189mila), almeno a spanne, senza una reale analisi di flussi, vuol dire che, rispetto alle primarie del 2019 e senza risalire troppo indietro, fino ai 3,5 milioni di votanti alle primarie di Veltroni (2009), il totale dei votanti è pari ai soli voti per Zingaretti (un milione su 1.600 mila votanti) e la Schelin ha vinto con quasi gli stessi numeri assoluti che equivalgono alla somma degli sfidanti del suo predecessore eletto alle primarie, Zingaretti (Letta venne eletto in seno all’Assemblea nazionale), Martina (384 mila voti) e Giachetti (188 mila). Insomma, una vittoria molto ‘limitata’, nei numeri, ma che indica – così dicono molte voci raccolte nell’area che fa capo a Bonaccini – un considerevole ‘cambio di pelle’ e natura del Pd.

Molti gli elettori ‘non’ del Pd che, grazie alla non necessità di avere la tessera del partito in tasca, si sarebbero recati ai gazebo: sinistra diffusa, apparati di Articolo 1 (che è entrato, a pieno titolo, nel percorso costituente: 90 mila gli iscritti), dell’Alleanza Verdi-Sinistra, dei 5Stelle, ma anche, ovviamente, di una sinistra ‘diffusa’, molto presente nelle città grandi, dove Schlein ha stravinto in modo schiacciante (Napoli, Roma, Bologna, Palermo, Genova, Firenze, Torino, Milano), anche con punte del 70% contro il 30%, e una vittoria più contenuta nei piccoli centri e nelle macro aree regionali (dove, in ogni caso, 14 regioni su 20 sono state appannaggio di Schlein). Una ‘sinistra-sinistra’ che si è ritrovata alla perfezione nelle parole d’ordine della Schlein mentre il voto per Bonaccini è stato trascinato solo dalle correnti (Base riformista) e dai governatori (Puglia, Campania, Toscana, Emilia) che l’appoggiavano e che, solo tra gli iscritti, era riuscito a fare la differenza, vincendo un round.

Il paradosso è che il voto ‘militante’ della sinistra, con numeri assoluti così risicati, è sufficiente per vincere un congresso, neppure sul filo di lana, ma in modo pieno, non certo per vincere le elezioni. Il Pd veleggia tra i 6 milioni di voti del 2019 (22,7%), sconfitta di Renzi, e i 5 milioni e 300 mila voti del 2022 (19,1%), sconfitta di Letta, mentre nei sondaggi si è appesa ripreso (17%), ma non abbastanza. Per tornare centrale, stante che i 12 milioni di voti (33,2%) arrisi al Pd di Veltroni nel 2018 sono irraggiungibili, dovrebbe tornare almeno agli 8 milioni di voti e passa (26%) del 2009-2013 (gestione di Bersani). Un Pd a vocazione ‘minoritaria’ e non maggioritaria, come quello di Schlein, difficilmente ci riuscirà.

Il tema delle alleanze diventa fondamentale
Ecco perché, paradossalmente, il problema delle tanto discusse ‘alleanze’ diventa esiziale, per la nuova leader del Pd. Con il Terzo Polo c’è molto poco da discutere: Renzi e Calenda, pur frustrati dalla pesante sconfitta elettorale alle Regionali, troveranno nuova linfa per rilanciare il processo di fondazione di un partito unico tra Azione e Iv. Obiettivo: attirare quel pezzo di mondo riformista che, pur tra mille mal di pancia, ha finora sempre continuato a votare Pd e, prima o poi, operare per conquistare qualche ‘pezzo da novanta’ dell’area riformista che ha appoggiato, finora, Bonaccini (il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, l’ex senatore Andrea Marcucci, l’ex deputato Luca Lotti, forse, prima o poi, lo stesso capofila dell’area, Lorenzo Guerini che l’altro ieri ha detto “il Pd è morto”). Ieri, piccolo segnale, Beppe Fioroni (ex ministro, tra i fondatori del Pd) ha rotto gli ormeggi, è uscito dal Pd e annunciato la nascita di “Piattaforma popolare”, network di cattolici ed ex popolari che, finora, erano rimasti nel Pd, e altri ancora, da quel mondo, se ne andranno con lui. Non a caso, già ieri, Ettore Rosato (Iv) dice: “Il Pd è finito. Porte aperte a popolari e riformisti”.

La Schlein, dunque, non potrà guardare che in due direzioni: verso i 5Stelle (“la vittoria della Schlein è un bene per l’Italia, pronti a lavorare su molti temi in comune, troverà il nostro supporto”) con cui stringerà sempre più i bulloni dell’alleanza in Parlamento come nel Paese, e verso la sinistra ‘diffusa’. Una sinistra che, dal punto di vista politico, un po’ vota Verdi-Sinistra (un buon 3% alle scorse Politiche) e un po’ si astiene, ma che non potrà ignorare, anzi: vorrà inglobare, radicalizzando ancora di più il partito. Il piccolo problema – che non è all’ordine del giorno ma che, prima o poi, pure si porrà – è che un Pd spinto al massimo della radicalità può valere il 20% del bacino elettorale e i 5Stelle il 10-15%. Se va bene, fa un polo di sinistra – radicale, innovativo quanto si vuole, populista – che, pur valendo un buon 30-35% non basta per candidarsi a governare e vincere le elezioni, senza avere al suo fianco una gamba riformista e moderata che valga almeno un altro 10-15%. Ma, forse, se l’obiettivo della Schlein era sicuramente quello di vincere le primarie e cambiare volto al Pd (il che, molto probabilmente, gli riuscirà) non altrettanto potrebbe essere quello di governare. In fondo, dall’opposizione, le proprie idee – anche le più nuove e innovative – non costa sbandierarle. Anzi, è un’ottima rendita d’opposizione, appunto.