Cultura

Che tracce lasciano i crimini contro l’umanità?

27
Gennaio 2023
Di Greta Galante

Sono passati 78 anni da quando i soldati sovietici del 1° Fronte Ucraino guidato del Maresciallo Konev varcarono un cancello sul quale campeggiava la scritta Arbeit macht frei (“Il lavoro rende liberi”). Al suo interno trovano circa 7mila persone, ridotte in condizioni disumane. All’avvicinarsi dei sovietici, a partire da metà gennaio del 45, Himmler diede l’ordine alle SS di iniziare l’evacuazione. Quasi 60 mila prigionieri, per la maggior parte ebrei, furono costretti a marciare verso ovest, una marcia forzata durante la quale morirono in più di 15 mila persone, per stenti o perché uccisi. Auschwitz era in campo di concentramento più grande e la data della sua liberazione è stata scelta dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005 per commemorare le vittime dell’olocausto con la Giornata della Memoria.   

Memoria, capacità di tenere traccia di informazioni relative a esperienze e di rievocarle quando lo stimolo originario cessa di esistere. Nonostante la memoria sia una capacità primordiale spesso e volentieri ha necessità di essere accompagnata. La parte di storia riassunta nelle poche righe sopra la senatrice a vita Liliana Segre teme che nei libri di storia delle prossime generazioni rimarrà solo una riga riguardante una dei capitoli più cupi della storia. Mai fino a quel momento era stata pianificata con tanta lucidità la morte di milioni di persone. Per la maggior parte Ebrei ma anche Rom, Sinti ma anche gay e disabili. Un sentore che non rimane confinato solo all’Olocausto ma che si estende ai genocidi, agli orrori commessi in passato, ai crimini contro l’umanità. Un monito legato alle lezioni che la storia impartisce “perché ciò che è accaduto può ripetersi”, ma se non ne rimane memoria cadere nello stesso errore è più semplice di quanto si possa pensare. 

Ma la domanda, da porsi, che si sono posti in tanti e che dovremmo continuare a porci è com’è stato possibile che tutto questo accadesse, prima nella pianificazione, poi nella sua realizzazione ultima. La politologa tedesca Hanna Arendt provò a indagare sulla risposta tra le pagine della “Banalità del male”, trasse ispirazione da Adolf Eichmann, del quale seguì il processo tra 1960 e il 1962.

Il militare tedesco, giudicato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio, si è sempre coperto dietro all’indice del “stavo facendo solo il mio lavoro”. Non a caso l’uso della parola “banalità” nel titolo è tanto giusta quanto deprimente. Eichmann, che si è sempre ritenuto un ligio cittadino, ha dichiarato che avrebbe eseguito anche l’uccisione del proprio padre se gli fosse stato ordinato. Sempre basandosi su questo pensiero banale ha confessato di essersi sentito perso l’8 maggio del 1945 quando venne ufficializzata la sconfitta della Germania. Un termine usato con scrupolo, perché il non poter ricevere più direttive da nessuno lo spaventava.

Ma, stando alle sue parole, dove finisce la morale di un individuo e dove inizia lo scarico di responsabilità? Quanto incide la consolazione di non essere più padrone delle proprie azioni? Consolazione che nel caso specifico derivava sia dal fatto di ricevere degli ordini sia dal comportarsi in maniera corretta nelle leggi vigenti; leggi che venivano dal Fuhrer. Quelle norme che sarebbero servite a Norimberga per poter processare gli imputati ma che alla fine della seconda guerra mondiale non esistevano. Nullum crimen, nulla poena sine lege – Nessun reato senza una pena, nessuna pena senza una legge; deficit a cui si è posto rimedio l’8 agosto 1945 con l’Accordo di Londra siglato tra Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e URSS, che include il genocidio nei “crimini contro l’umanità”. 

Un tema quello dei crimini contro l’umanità che ritorna oggi in fronti geografici simili ma in epoche che vorrebbero essere altre, in un secolo che appare più lungo di quello che l’ha preceduto. Si sa la storia è fatta anche di eterni ritorni e di serpenti che si mordono la coda. Il nazismo è tornato alla ribalta nella narrazione putiniana come giustificazione di nuovi crimini. Denazificare diventa l’ordine di nuovi massacri, diversi ma non per questo meno ingiusti. Viene opportuno quindi chiederci, anche oggi, in epoche diverse ma sempre immerse nella storia dell’umanità, quale sia il nesso che lega la morale di un uomo agli ordini ai quali deve obbedire. È doveroso oggi chiederci se le lezioni che ci impartisce la storia siano state assimilate, se siano state invece ignorate o dimenticate. Per questo serve la memoria.