Politica

Non sono bastate due Repubbliche per trovare una memoria condivisa sul 25 aprile

25
Aprile 2023
Di Ettore Maria Colombo

Il mito (comunista) della Resistenza ‘tradita’
“Hanno tradito la Resistenza!”. Se un militante della sinistra comunista fosse stato ibernato, negli anni Settanta, e scongelato solo oggi, nel 2023, penserebbe: ‘ah sì, certo, nulla di nuovo, si sa’… Peccato che, negli anni Settanta, il mito della ‘Resistenza tradita’ voleva dire ben altro da oggi. Indicava – sulla scorta di una particolare tipologia di comunisti del Pci (da Pietro Secchia, capo dell’organizzazione del Pci negli anni Settanta, a Arrigo Boldrini, il capitano ‘Bulow’ della lotta partigiana) che erano così ideologici e fanatici da ritenere il ‘compromesso’ istituzionale e politico uscito dalla lotta di Liberazione (in soldoni: il Pci accetta il libero gioco democratico, compresa la reggenza della Monarchia fino al referendum, e non minaccia di fare ‘la rivoluzione’, la Dc non lo mette fuorilegge, ma gli consente di governare, per i fascisti viene varata un’amnistia, firmata dall’allora guardasigilli Togliatti, segretario del Pci, poi il patto, nel 1947, saltò, ma è un’altra Storia da raccontare…) una vera e propria svendita delle ragioni dei partigiani socialcomunisti. I quali non volevano – nelle obiettive speranze di molti e nelle ricostruzioni posteriori – solo liberare l’Italia, ma farne una Repubblica dei soviet, democratica ‘e’ socialista.

Sulla scorta del mito della Resistenza ‘tradita’, negli anni Settanta, molti dei militanti dei gruppi e gruppuscoli dell’estrema sinistra (Lotta continua, Potere Operaio, Autonomia operaia, etc) presero la via dell’insurrezione armata che, in larga parte, sfociò nel Partito Armato (Br, etc.). Solo che, come rispose duro Togliatti al giovane Sofri che lo insolentiva (Perché dopo la Resistenza non avete fatto la Rivoluzione? – Risposta: Perché saremmo finiti come in Grecia, dove i colonnelli presero il potere, trucidarono gli avversari politici e instaurarono una dittatura, solo che militare), fino agli anni Ottanta, almeno, il mito e il culto della Resistenza come lotta di Liberazione, dalla dittatura fascista e dal dominio nazista sull’Italia, accomunò tutti i partiti politici.

La Resistenza condivisa e la Prima Repubblica
Infatti, dalla Dc e dai liberali (‘Bella ciao’ fu, per decenni, la canzone dei partigiani più moderati, la festa del 25 aprile la istituì nel 1946 De Gasperi), passando per gli azionisti e i repubblicani (i più radicali e, spesso, i più spietati, contro i fascisti, ma pure i più anti-monarchici e i più anti-clericali nel post-guerra) fino, ovviamente, a socialisti e comunisti che, però, accettarono che la Resistenza diventasse un mito ‘condiviso’ da parte di tutta la Nazione, sapendo in buona sostanza di essere sempre stati una minoranza. Occorse, prima ancora di Gianpaolo Pansa, e della sua lunga serie di libri sul ‘Sangue dei vinti’ (gli orrori prodotti dalle bande partigiane, specie nel triangolo rosso, soprattutto nel dopoguerra, contro ex fascisti, repubblichini e non) l’opera di uno storico di provata fede di sinistra radicale, Claudio Pavone, per spiegare che di Resistenze, in Italia, ce ne erano state almeno tre. Una, la lotta di Liberazione vera e propria, l’avevano combattuta tutta (anche i cattolici, anche i monarchici, persino i badogliani) e mirava a restituire libertà all’Italia occupata dall’invasore. La terza era, appunto, la ‘guerra di classe’ che i socialcomunisti pensavano di riuscire a imporre, tramite la Resistenza, per imporre una democrazia ‘popolare’ e ‘socialista’ (obiettivo fallito, prima ancora che militarmente, dato che la vera spallata a esercito tedesco e Rsi arrivò dagli Alleati che risalivano la penisola, causa divisione dell’Europa nei due blocchi della Guerra Fredda).

Lo scandalo ‘guerra civile’ nei libri di Pavone
La seconda era un termine che, coniato allora da Pavone, tanto scosse le coscienze, a sinistra, quello di ‘guerra civile’ tra partigiani e fascisti. Sembrava, allora, una bestemmia perché, di fatto, proprio come i libri di Renzo De Felice che spiegavano il largo consenso avuto dal regime fascista durante il Ventennio (consenso crollato, appunto, solo con l’entrata in guerra al fianco di Hitler), mettevano, in qualche modo, sullo stesso piano, fascisti e antifascisti, partigiani e repubblichini, come se avessero ‘tutti ragione’. Non era questo il fine ultimo della ricerca storica di Pavone, ma questo ne fu il risultato politico. Il concetto di ‘guerra civile’ ne venne sdoganato.

La Rottura della Seconda Repubblica
Ma se, nella Prima Repubblica, fino al 1992, la teoria dell’arco costituzionale (tutti i partiti potevano governare tra di loro, o in coalizione o da soli, tranne il Msi, che era nato dopo la Resistenza, disconoscendola, e dopo la Costituzione, non approvandone la scrittura) aveva retto, nella Seconda Repubblica il consenso unanime sui valori della Resistenza saltò presto. Silvio Berlusconi sdoganò An, erede dell’Msi, e portò i suoi colonnelli e leader al governo, la sinistra post-comunista si appropriò dell’antifascismo in modo unico e totalizzante (anche perché la Dc, che pure l’aveva fatta, non c’era più), altri partiti nuovi si dicevano antifascisti ma erano troppo distanti da quella memoria (la Lega), altri ancora la ignoravano.
Tanto che il 25 aprile 1994, I governo Berlusconi, un grande corteo indetto per la Liberazione si trasformò in manifestazione anti-berlusconiana.

Le tesi di Fiuggi, Violante e Berlusconi a Onna
Eppure, nel corso della Seconda Repubblica, vi furono altri tre fatti ed episodi politici che lasciavano ben sperare sulla possibilità di una memoria condivisa. Le tesi di Fiuggi di An, in primis. Gianfranco Fini, come ha rivendicato in questi giorni, varate nel congresso del 1994. Che recitano, in un passaggio fondamentale, questo: “È giusto chiedere alla destra italiana di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”. Un’abiura, netta, chiara, precisa, del fascismo. In secondo luogo, il discorso di insediamento di Luciano Violante, allora esponente del Pds, a presidente della Camera. Il quale nel 1996 disse: “Mi chiedo – diceva Violante – se l’Italia di oggi non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri. Non perché avessero ragione, o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le due parti. Bisogna sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e della libertà”. Non, come si è pensato (e travisato), dunque, una parificazione di ragioni e torti, diritti e responsabilità, ma il tentativo di ‘capire’, appunto, i ‘motivi’ per cui molti giovani scelsero, consapevolmente, la ‘parte sbagliata’. Infine, il discorso di Onna di Berlusconi (2009), il quale, festeggiando proprio il 25 aprile, in un luogo di una strage nazista e onorando una brigata partigiana, la brigata ‘Maiella’, ricordò “una generazione di italiani che non esitò a scegliere la libertà. Anche a rischio della propria sicurezza, anche a rischio della propria vita. Il nostro Paese ha un debito inestinguibile verso quei tanti giovani che sacrificarono la vita, negli anni più belli, per riscattare l’onore della patria, per fedeltà a un giuramento, ma soprattutto per quel grande, splendido, indispensabile valore che è la libertà” e poi ricordò pure la Costituzione che dalla lotta di Liberazione era, appunto, scaturita.

L’arrivo di FdI al governo rimescola tutto…
Insomma, sembrava fatta: una memoria condivisa (e non ‘abortita’) sembrava essere nata. L’arrivo della destra di FdI al potere, invece, rimescola tutto. E comporta, tra gaffe di La Russa (sull’attentato di via Rasella, sull’assenza dell’antifascismo in Costituzione, e via così) e parole, pronunciate da altri esponenti di FdI, che si limitano a condannare i ‘totalitarismi’ o che preferiscono scrivere, come nella mozione del centrodestra depositata in Senato sul 25 aprile, una lunga teoria di date che con la Resistenza non c’entrano nulla e che vanno egualmente celebrate (si parte dall’Unità d’Italia del 1861, si passa per la vittoria nella Prima Guerra Mondiale, si citano, ovviamente, il Giorno del Ricordo delle Foibe, si finisce con gli omicidi politici degli anni ’70…), una specie di continuum storiografico (e politico) in cui la storia d’Italia non conoscerebbe cesure. Sarebbe un tutt’uno che inizia nel Risorgimento, passa per la Grande Guerra, sorvola sul fascismo, vi fa rientrare il 25 aprile, condanna tutti gli -ismi (con preferenza per i ‘comunismi’…), chiede una sostanziale pacificazione nazionale, pur se in modo implicito, sul 1943-45 come sugli anni ’70. Così, però, tutte le vacche diventano grigie, nella notte, e la sinistra – o quel che ne resta – ha buon gioco a dire che, quando si parla di antifascismo, la attuale destra non ha il coraggio di rivendicarlo come non ha coraggio di condannare il fascismo.

Si potrebbe dire che un partito come i 5Stelle non ha mai mostrato grande amore o afflato per la lotta partigiana e la Resistenza, per la difesa della Costituzione, i fondamenti della democrazia (anzi…) o che una sinistra ormai ‘annacquata’ non sa più nemmeno dove stia la lotta di classe e la sua rivendicazione della Resistenza è tutta e solo incentrata sul tema dei diritti civili, ma certo è che la Resistenza, la lotta di Liberazione, l’antifascismo e l’impianto della Costituzione, sembrano essere diventati patrimonio solo di una ‘parte’ politica, quella della sinistra (light, però).

Eppure, appunto, bastava davvero poco, per Meloni e tutti gli altri esponenti di FdI. Bastava riprendersi in mano il discorso di Onna di Berlusconi, quello di Violante sui ragazzi di Salò o le tesi di Fiuggi che diedero vita ad An per far sì che la memoria di questo Paese possa trovare, finalmente, pace. Anche sulla data del 25 aprile che si celebra oggi e che, 75 anni fa, ha visto tanti italiani dalla stessa parte (e altri dall’altra, quella sbagliata), ma che hanno ancora bisogno di riconoscersi e di festeggiare la loro Liberazione.