Politica

La fragilità della Pax

03
Dicembre 2022
Di Alessandro Caruso

Il 13 dicembre. Potrebbe essere questa la data storica dell’apertura del negoziato di pace, a Parigi, per progettare la conclusione del conflitto in Ucraina. È la proposta uscita dal confronto tra Macron e Biden a Washington, una due giorni in cui il presidente francese si è proposto essenzialmente come il vero interlocutore europeo per gli USA, il ruolo che prima di lui sembrava essersi ritagliato l’ex premier italiano Mario Draghi. Il fronte atlantico propone una “pax” che non sia inaccettabile per l’Ucraina e a condizione che Mosca sia disponibile a un cessate il fuoco. Dal canto suo il tandem Putin-Lavrov ha esplicitato un’apertura, seppur con alcune precisazioni: dall’individuazione di John Kerry come possibile interlocutore alla “piccata” puntualizzazione sul ruolo diretto che la Nato e gli USA hanno avuto finora nel conflitto. Un segnale che da molti è stato interpretato come un voler fare emergere un orientamento sul ruolo che la Russia potrebbe avere sul tavolo negoziale. E Zelensky? La vera notizia, al momento, è proprio il suo silenzio. Il presidente ucraino non si è espresso per commentare questo sviluppo diplomatico. Un segnale di protesta? Sapore di sconfitta? Un atteggiamento che rende molto fragile questo tentativo di incontro finalizzato alla pace, sebbene dall’inizio del conflitto sia effettivamente il più concreto e realistico.

L’Italia, per il momento, resta a guardare. Nell’attesa, il Governo dopo il voto favorevole della mozione della maggioranza alla Camera ha approvato il decreto per l’invio di armi all’Ucraina per tutto il 2023. Non esattamente quelle richieste da Kiev (i missili del sistema Samp/T) bensì gli Aspide, missili di medio-lungo raggio, più semplici da cedere.

Il voto ha confermato il fermento parlamentare di queste settimane. La maggioranza non ha mostrato crepe approvando compatta la sua mozione. Sono passate anche le mozioni, similari nell’orientamento, di Pd e Terzo Polo, grazie a voti di astensione incrociata e alle votazioni per parti separate. Fonti parlamentari confermano che Calenda avrebbe apprezzato un voto di Fratelli d’Italia a sostegno della sua mozione, ma la Meloni non poteva rischiare una crisi interna con Forza Italia, il partito che più degli altri ha espresso disappunto per gli ammiccamenti tra il centrodestra e il Terzo Polo. Tuttavia le prove di dialogo vanno avanti, con buona pace del Pd, che per bocca del suo segretario non perde occasione di accusare Calenda e Renzi di essere la “stampella” del Governo.

Del resto non ci sono dubbi, alla Meloni conviene stabilizzare il più possibile la sua maggioranza, se necessario allargandone la base, perché le prossime sfide saranno molto ardue, soprattutto quelle che come terreno di scontro vedono Bruxelles. La settimana politica del premier, infatti, è stata agitata. Innanzitutto per la valutata incertezza del raggiungimento degli obiettivi per l’ottenimento dei fondi del Pnrr. Un tema che preoccupa i ministri, consapevoli che le nuove emergenze (aumento dei costi, confusione dei ruoli anche a causa del turn over governativo dopo le ultime elezioni) stanno rendendo difficile il rispetto della tabella di marcia. In secondo luogo c’è lo spauracchio del Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità. In settimana la maggioranza ha incassato un parziale successo, votando compatta il “no” alla ratifica del fondo salva stati. Si tratta di una battaglia storica della Meloni, quindi il prezzo politico di un cambio di rotta sarebbe troppo alto. La posizione di Fratelli d’Italia, che incontra la tendenziale approvazione degli alleati è rimasta sempre la stessa: un eventuale ricorso al Mes metterebbe in discussione l’autonomia finanziaria del paese, perché le condizioni di accesso all’assistenza finanziaria prevista dal Patto sono troppo stringenti. Ma se la Germania, unico paese oltre l’Italia a non avere ancora ratificato il trattato, dovesse accodarsi agli altri 17 Stati che l’hanno già accolto, sull’Italia peserebbe una responsabilità molto grande: la sua mancata ratifica farebbe crollare l’intero trattato, per la cui entrata in vigore serve la ratifica unanime da parte dei 19 paesi interessati. Con il voto della Camera Roma ha preso tempo. Ma il tempo passa e rende la “pax” interna più fragile e condizionata.

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