Politica

La missione possibile di Biden (e il futuro di Trump)

22
Gennaio 2021
Di Redazione

di Ernesto Di Giovanni

 

Joe Biden si è insediato mercoledì 21 gennaio ufficialmente alla Casa Bianca come 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America e con la prima Vice Presidente donna della storia americana, Kamala Harris.

Le elezioni del 3 novembre, la sconfitta di Donald J. Trump e i fatti del Campidoglio del 6 Gennaio sono ricordi ancora freschi e, in parte, difficili da dimenticare. Le ferite aperte da queste elezioni rimarranno ancora per anni nella democrazia e società americana e la grande sfida per Joe Biden – al netto di quelle di politica estera ed economica – sarà proprio questa. Curarle.

Riunire un Paese che non era mai stato così polarizzato nella sua gloriosa storia dai tempi della Guerra Civile di Secessione.

Mercoledì Donald Trump ha lasciato lascia la Casa Bianca con un discorso di commiato che lo proietta nei prossimi quattro anni al grido di: “We will come back…”, per poi salire sul Marine One per Andrews,  base Air Force Base nel Maryland e prendere –  per l’ultima volta – l’Air Force One destinazione Miami, Florida.

Il tutto senza prendere fisicamente parte alla cerimonia di insediamento di Joe Biden e Kamala Harris (erano presenti solo il Vice President Mike Pence, i Presidenti emeriti Bill Clinton e Barack Obama e l’ex Segretario di Stato Hillary Clinton) e soprattutto senza mai nominare i suoi successori. Donald Trump finisce nel peggiore dei modi la sua Presidenza, e aggiungerei, purtroppo.

Questo perché gli USA necessitano di riconciliazione e riappacificazione, perché la Presidenza Trump, al netto delle fazioni e dell’utilizzo personalistico, stravagante e troppe volte fuori dalla righe, è stata condotta dall’ex inquilino della Casa Bianca raggiungendo sicuramente dei risultati importanti sul fronte della politica interna, economica ed internazionale.

Basti pensare ai risultati economici pre-covid, ai numeri da capogiro di Wall Street e ad alcuni storici successi in politica estera come i recenti Accordi di Abramo.

Derubricare le rivendicazioni del popolo di Trump (e chi lo ha sostenuto sia nel 2016 che nel 2020) a quanto avvenuto il 6 gennaio 2021, al modo in cui il Presidente uscente non ha mai riconosciuto l’esito del voto e di come abbia complicato la transizione di potere, è il più grande errore di valutazione che i politologi e gli analisti di tutto il mondo possano commettere.

Non aver mai accettato pienamente la sconfitta elettorale, il non aver lasciato spazio ad una transizione lineare e in piena continuità, avendo continuato a parlare di brogli elettorali nonostante le commissioni degli Stati e federali non abbiano riscontrato frodi a riguardo, e infine aizzando in maniera irresponsabile una parte del suo elettorato più facinoroso per una insurrezione violenta a Capitol Hill che, oltra a 4 vittime, è costato agli Stati Uniti una pessima immagine nei confronti del Mondo e dei suoi nemici: Cina, Iran e Russia in primis, e potrebbero costare ancor di più a Trump stesso e al Partito Repubblicano.

Le elezioni del 3 novembre hanno lasciato un Paese diviso, lacerato e in sofferenza (400mila morti a causa della pandemia) travalicando la mera contrapposizione elettorale tra due visioni del mondo e della vita. Le ragioni di questa forte dicotomia sono da ricercare nel profondo cambiamento che le democrazie occidentali e liberali stanno attraversando ormai da un decennio, e che hanno iniziato ad avere un effetto visivo proprio con l’elezione di Donald Trump e con l'inizio della Brexit nel 2016, ma che avevano già vissuto, sopite, nelle nostre società occidentali dagli inizi degli anni 2000.

Nel suo discorso all'Innauguration Day il Presidente Biden ha parlato di un giorno in cui si è celebrato il trionfo della democrazia e che essa stessa "è preziosa ma anche fragile e quindi va preservata in modo assoluto".
Sono parole forti che dovrebbero riecheggiare in tutto il globo per far capire come la democrazia, al netto delle sue imperfezioni, della sua liturgia demodé, del suo ritmo quasi ottocentesco nelle formule e nei riti, sia la migliore forma di governo che l’umanità abbia mai sperimentato. Come direbbe qualcuno in Italia, in democrazia la forma è sostanza.

Per cercare di superare le divisioni e la polarizzazione Joe Biden cita uno dei presidenti più amati della storia americana, il repubblicano Abraham Lincoln, in un discorso tenuto il giorno di capodanno del 1863 durante la proclamazione di emancipazione e in piena guerra civile di secessione: “..se il mio nome passerà mai alla storia, sarà per questo atto, e tutta la mia anima è lì dentro”.

E il Presidente Biden, nel riprendere questa frase, ha chiosato:“…tutta la mia anima è in questo: riunire l’America, unire il nostro popolo, unire la nostra nazione. Chiedo a ogni americano di unirsi a me in questa causa….A tutti coloro che hanno sostenuto la nostra campagna, sono onorato della fiducia che avete riposto in noi. A tutti coloro che non ci hanno sostenuto, lasciatemi dire questo. Ascoltatemi mentre andiamo avanti. Concedetemi una possibilità. Se ancora non sarete d’accordo, cosi sia. Questa è la democrazia. Questa è l’America. Il diritto di dissentire pacificamente. All’interno dei confini della nostra repubblica, è forse la più grande forza di questa nazione. Eppure ascoltatemi chiaramente, il disaccordo non deve portare alla divisione. E ve lo prometto, sarò un presidente per tutti gli americani, tutti gli americani. E vi prometto che combatterò duramente per coloro che non mi hanno sostenuto come per quelli che l’hanno fatto.”

Cosa è che abbiamo sempre ammirato noi europei e italiani del patriottismo americano? Di questo patriottismo di una Nazione costruita da immigrati e forgiata sull’amore per la costituzione e la bandiera e i simboli che esse rappresentano? Abbiamo sempre ammirato il riconoscersi in un valore superiore rispetto all’appartenenza politica e partitica: ogni volta che finisce una tornata elettorale – che sia politica o altro – tutti si identificano nella funzione e nel ruolo che quel determinato politico o giudice o sceriffo di contea rappresenta…UNITED WE STAND…recita il memoriale del 9/11.

Ecco, in questi anni, ciò che è cambiato negli Stati Uniti è stato proprio questo.

Dall’elezione di George W. Bush, dalla guerra in Iraq e la successiva elezione di Barack Obama nel 2008 – con l’ultima lezione di bipartisanship e patriottismo data da John McCain nel discorso di accettazione della sconfitta elettorale alle Presidenziali – è cambiato qualcosa; si è rotta forse una magia costituzionale, fatta di omaggi e rituali, per far spazio a una polarizzazione senza esclusione di colpi, da entrambe le parti. E’ come se la perenne litigiosità politica dei paesi europei avesse contagiato gli Stati Uniti.


Per questo il compito di Joe Biden sarà durissimo e speriamo che un uomo della sua moderazione e vocazione religiosa (il secondo cattolico eletto Presidente dopo JF) possa avere successo in questo.

Passiamo velocemente però alla situazione politica all’indomani dell’insediamento e ai primi ordini esecutivi firmati dal nuovo Presidente.

Tra i 19 ne menziono alcuni:

 

  • Introduzione dell’obbligo di indossare la mascherina
  • Abolizione del Muslim Ban
  • Eliminazione della legge contro i dreamers
  • Blocco finanziamento costruzione muro lungo il Messico
  • Riesumata legge del 1956, Defense Production Act, per la produzione di materiale sanitario paragonato a quello bellico
  • Rientro degli USA nell’Organizzazione Mondiale della Sanità
  • Rientro degli USA in Cop26 e accordi di Parigi sul clima
  • Sostegno alle categorie più colpite dalla crisi da covid
  • Manovra da 1.900 miliardi di dollari per rianimare il mercato del lavoro

Tutte queste misure sono state varate, assieme ad altre, anche con l’obiettivo di raggiungere i 100 milioni di americani vaccinati in 100 giorni.

Per portare a casa i risultati di tutti questi ordini esecutivi, il Presidente Biden sa benissimo che dovrà confrontarsi con gli Stati Federali e – in particolar modo – con quelli repubblicani più refrattari all’ingerenza di Washington. Per fare questo Biden dovrà dare forza a tutta la sua arte di grande mediatore, sostenuto da una parte del partito repubblicano e dal loro leader al Senato, Mitch McConnell.
Facendo un passaggio veloce su alcuni ordini esecutivi ne saltano all’occhio alcuni che sono proprio in controtendenza con l’amministrazione Trump e segnano già una linea di discontinuità netta e chiara.

Dal Muslim Ban, allo stop alla costruzione del muro in Messico (anche se Biden fu uno dei firmatari nel 2006, assieme Hillary Clinton e Barack Obama, del Security Fence Act e che consentiva la realizzazione di 700 miglia di recinzione al confine meridionale), allo stop alla legge contro i dreamers (i bambini entrati illegalmente in america e che ora sono completamente integrati) e il rientro degli USA in due contesti internazionali molto dibattuti e discussi come l’OMS e gli accordi di Parigi.

Al netto del merito politico e delle convinzioni di queste decisioni, è evidente come il Presidente Biden si stia coprendo a sinistra, andando a dare subito una soddisfazione politica alla parte più radicale della piattaforma democratica.

Immigrazione, diritti civili, ambiente e sanità sono le priorità su cui esponenti di spicco dell’ala sinistra del partito come Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Alexandria Ocasio-Cortez si sono battuti per sostenere la candidatura di Joe Biden e che lo misureranno di volta in volta.
Infatti con la vittoria dei democratici nei due seggi per il Senato andati al ballottaggio in Georgia dopo le elezioni del 3 novembre, i Dem hanno ottenuto la maggioranza in entrambi i rami del Congresso USA (anche se risicata al Senato) e questo consentirà a Biden una navigazione non troppo turbolenta – come ci si immaginava all’indomani del voto presidenziale – almeno fino alle elezioni di Mid-Term nel 2022.

Due anni pieni in cui il Presidente cattolico, di origini irlandesi e con una vita passata nelle Istituzioni americane, avrà l’arduo compito di ricucire un Paese mai cosi diviso dai tempi della guerra civile. Un uomo dell’establishment verrebbe da dire, ma forse il nuovo Presidente potrà ridare dignità a questa categoria, additata – a volte a ragione – come fautrice dei mali delle democrazie occidentali.

Un ultimo passaggio su Donald Trump. I Dem stanno portando avanti l’impeachment richiesto dalla Camera dei Rappresentanti – per la seconda volta nei confronti di un Presidente (evento mai capitato prima) – e che avrebbe dovuto votare il Senato se Trump fosse ancora in carica. Gli avvocati di tutta America si stanno domandando se un Presidente emerito, e non più in carica, possa essere accusato di impeachment; non ci sono precedenti a riguardo. A tal proposito l’idea del partito democratico, per voce della Speaker della Camera Nancy Pelosi, è quella comunque di portare dinanzi a un tribunale federale l’ex Presidente Trump e, in caso di comprovata colpevolezza per il riot a Capitol Hill del 6 gennaio, interdirlo a vita dai pubblici uffici.

Donald Trump dal canto suo sta preparando già il suo nuovo partito, il Patriot Party, che si posizionerebbe alla destra del Partito Repubblicano e che avrebbe anche il consenso di alcune piattaforme più estreme: dai Proud Boys a QAnon, etc. etc.

Penso sinceramente che alla politica americana non serva altro odio e spero che i democratici non si spingano verso l’interdizione di Trump. Sarebbe l'ennesima tanica di benzina sul fuoco e altro materiale utile per i complottisti a stelle e strisce che già molti danni lavorano sulla propaganda.

La Democrazia prevale con le idee, l’impegno civico, la partecipazione e la trasparenza: non con la censura. E la vittoria di Joe Biden ne è la dimostrazione più forte.

 

God Bless America!

 

 

 

 

 

 

Photo Credits: Ispi

 

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