Politica

Occhio al “true believer”, tipo psicologico purtroppo immortale…

12
Ottobre 2021
Di Daniele Capezzone

C’è un libro di Eric Hoffer (“The true believer – Thoughts on the nature of mass movements”) che è stato scritto nel 1951, ma sembra pubblicato ieri, ed è tuttora – a mio modo di vedere – il più utile e moderno manuale sulla comprensione di come nascano e crescano movimenti di massa, dai movimenti nazionalisti alle rivoluzioni sociali, passando per i movimenti religiosi. Ovviamente non tutto è identico, ci sono movimenti animati da una carica e da un afflato umanitario, e invece pericolosi movimenti distruttivi e negativi, ma Hoffer individua il denominatore comune – antropologico e sociologico – proprio di tutti i movimenti fortemente ideologizzati, fidelizzati e fanatizzati.  

Al centro c’è il “true believer”, il credente assoluto, l’uomo pronto a morire, fanatico, entusiasta, animato da una fede cieca, disponibile al sacrificio di sé, abitato – nello stesso tempo – da una speranza fervente e da un odio intollerante.

Intanto, prima di venire alle caratteristiche del soggetto, Hoffer descrive bene il contesto che “aiuta” il soggetto a entrare in questa dimensione fideistica. Una società in crisi e un fallimento personale sono l'”ambiente” ideale per questa trasformazione. La naturale indisponibilità a riconoscere le proprie incapacità, i propri insuccessi, le proprie colpe, e la corrispondente ricerca di una colpa “esterna”, portano il soggetto debole a dirsi che il suo fallimento deriva da ciò che lo circonda. Di chi è la colpa dei miei fallimenti? Del mondo, della società, del paese in cui vivo. E quindi? Da un lato voglio un cambiamento spettacolare intorno a me che “certamente” giocherà a mio favore, e dall’altro, per dimenticare un presente che non mi “comprende”, scommetto sulla “droga” del futuro e di un cambiamento catartico. Questo è vero non solo nelle società chiuse e oppressive, ma paradossalmente può valere a maggior ragione nelle società aperte, in cui ciascuno è più libero di perseguire la propria speranza: un motivo di più per negare l’evidenza della propria responsabilità individuale, delle proprie colpe singole, e cercare rifugio nel “domani” e in un “altrove” rivoluzionario. 

Ma oltre a questo rifiuto di un presente “ostile” per puntare su un futuro “sorridente”, c’è dell’altro. Mentre nelle organizzazioni libere di una società democratica, un punto essenziale è il proprio concreto “avanzamento” (di posizione, di carriera, ecc), nelle organizzazioni di massa descritte da Hoffer vale il principio opposto: la disponibilità al sacrificio di sé, nell’immediato, sempre in vista della futura e salvifica rivoluzione. 

In questa chiave, senza alcuna volontà razzistica o dispregiativa, Hoffer spiega bene come il terreno naturale di lavoro per i leader di questi movimenti di massa sia la “raccolta” presso i frustrati, gli arrabbiati, i disadattati, e tutti coloro per cui sia lancinante il dolore che deriva dalla distanza tra gli obiettivi proclamati dal governo o dal potere del momento e – invece – la loro misera ed effettiva esistenza ai livelli più bassi e marginali di una società. Costoro, com’è chiaro, non hanno alcuna “riverenza” verso il presente, e sono naturaliter disponibili a una svolta radicale, con qualunque mezzo e costi quel che costi. 

Qui entra in gioco il leader. A un leader di tali movimenti di massa non si richiedono le virtù proprie di un leader democratico in una società liberale (che non può mai contare su un’obbedienza cieca e assoluta dei suoi concittadini), ma altre caratteristiche: volontà d’acciaio, convinzione fanatica di essere nel giusto, capacità di creare devozione in un piccolo gruppo, tendenza a essere un ciarlatano (uno capace di alterare la realtà o di presentarne una “riadattata”), ma soprattutto abilità nel deprecare lo stato di cose esistenti, nel rimpiangere un passato mitico, e ovviamente nel descrivere un futuro radioso che è lì, a portata di mano, a patto che si sia “convinti” di poterlo raggiungere, e disponibili ad ogni sacrificio per inverarlo. 

Aggiungo alcune considerazioni finali. 

1. È essenziale il “racconto” da parte del capo (oggi qualche sventurato direbbe: la “narrazione”), e ancora di più la sua capacità di far sentire i suoi fedeli parte di un’impresa epica, che può dar senso a sforzi, pene e sofferenze. 

2. È cruciale la condizione di insicurezza personale e profonda del fanatico. Leggendo queste pagine di Hoffer, mi sono tornati alla mente tre autori a cavallo tra psicanalisi e analisi sociale: Reich e la sua riflessione sulla repressione profonda dei seguaci di nazismi e comunismi, bisognosi di una guida, di un fuhrer, di un capo; Adler e la sua insistenza sul complesso d’inferiorità individuale come “motore” e “innesco” di tante vicende umane; e infine Girard, con la ricerca da parte di gruppi e comunità di un “capro espiatorio” da sacrificare in modo rituale per “salvare” gli altri membri. 

3. Più che mai, c’è da essere orgogliosi (per chi ama la cultura liberale, alternativa alla deriva descritta da Hoffer) della parola “individuo”. L’unico antidoto contro questi incubi fanatici e totalitari è proprio la consapevolezza di se stessi, la volontà di preservare una sfera personalissima – quanto più possibile ampia – contro ogni intromissione pubblica. Ciò non vuol dire, per noi liberali, immaginare individui “asociali”, monadi impenetrabili: al contrario, in una società aperta, ciascuno potrà scegliere le sue interlocuzioni, le sue “interdipendenze”, ma sempre come atto di volontà autonoma propria, mai come imposizione esterna.

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