Politica

Summit UE-Balcani: Intervista ad Alberto de Sanctis

07
Ottobre 2021
Di Paolo Bozzacchi

 

Si chiude oggi in Slovenia il Summit UE-Balcani Occidentali, al quale è intervenuto anche il Primo Ministro italiano, Mario Draghi. La penisola balcanica è da tempo il prossimo passo dell’allargamento dell’Unione, ma sono ancora molti i nodi da sciogliere, a causa delle diverse pressioni esercitate sull’area dagli altri principali attori internazionali (USA, Cina, Russia, Turchia). The Watcher Post fa il punto sul ruolo internazionale e il futuro dei Balcani con Alberto de Sanctis, analista e membro del consiglio editoriale di Limes.

“Serve un’Unione più assertiva ed efficace. Il Summit è per risolvere i conflitti regionali”. Così il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, alla vigilia del Summit UE-Balcani. E’ d’accordo? L’Europa ha abbastanza peso politico internazionale per essere l’attore decisivo dello sviluppo dell’area?

 

Direi di no, perché l’Unione Europea non può essere in alcun modo considerata come un soggetto autonomo. Invece andrebbe vista per ciò che è realmente: un mezzo per raggiungere un fine nelle mani dei Paesi membri, che possono servirsene come moltiplicatore di forza oppure per soddisfare i loro interessi nazionali, in barba all’europeismo di maniera tanto di moda in Italia. Per dare un giudizio sul vertice sarà importante capire cosa vogliono fare del dossier balcanico le singole capitali europee. Penso ad esempio all’incontro che c’è stato a metà settembre tra la cancelliera tedesca uscente Angela Merkel e il presidente serbo Aleksandar Vučić, in cui la prima ha auspicato l’ingresso dei Balcani occidentali nell’Ue. Ciò chiarisce che in questa fase la Germania sta cercando di sottrarre la regione a turchi e russi e pensa di usare Bruxelles come veicolo dietro cui celare il proprio interesse. Peraltro non ci dimentichiamo che tramite il colosso logistico amburghese Hhla Berlino è appena sbarcata anche a Trieste, il porto che costituisce da secoli il principale punto di connessione fra lo spazio mitteleuropeo e balcanico-occidentale con il mare.
 

Perchè organizzare proprio adesso un summit sui Balcani? Quali sfide attendono i paesi europei e soprattutto quali sono gli attori internazionali più attivi nell’area? 

 

I Balcani sono una penisola tradizionalmente instabile che in questa fase è tornata al centro della competizione fra le maggiori potenze mondiali. Prendiamo il caso della Bosnia-Erzegovina, uno Stato assimilabile a un protettorato internazionale di fatto, oltre che impossibilitato a funzionare finché sarà composto da due entità semi-indipendenti e in continuo contrasto fra loro (la Republika Srpska e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina). Poi c’è l’Albania, la nazione ottomana per eccellenza tornata nell’orbita di Ankara da inizio 2020 grazie all’accordo di cooperazione militare che i turchi hanno siglato con Tirana. Con questa mossa la Turchia ambisce a riaffermare la sua sovranità sulla sponda balcanica del Canale d’Otranto e, in prospettiva, a porre le basi per estendere la propria influenza dominante su quelli che un tempo erano i Balcani ottomani propriamente detti. Quindi viene la Serbia, perennemente inquieta poiché preda di un complesso di accerchiamento molto forte, che come da tradizione può contare sul supporto di Mosca nelle sue dispute con i vicini. Emblematica la visita dell’ambasciatore russo Alexander Botsan-Kharchenko e dell’attaché militare Alexander Zinchenko alle truppe serbe schierate al confine kosovaro in queste settimane, pronte a intervenire “a protezione degli ortodossi” nella municipalità kosovara a maggioranza slava. Così la Federazione Russa si è confermata lesta e assertiva nel colmare i vuoti lasciati aperti dalle cancellerie occidentali, anche se ciò significa intervenire in teatri a lei non geograficamente attigui.
 

A proposito di Serbia, le tensioni con il Kosovo destano preoccupazione. Anche alla vigilia della missione della presidente Ursula von der Leyen nel paese balcanico di fine settembre, aerei da combattimento ed elicotteri serbi si erano levati in volo a ridosso della frontiera. La normalizzazione dei rapporti Belgrado-Priština è la chiave per la riuscita del progetto di integrazione europea?

 

Parlerei di condizione necessaria ma non sufficiente, vista la quantità e soprattutto l’entità delle partite in ballo. Certo è una delle più rilevanti, specialmente oggi che la tensione nell’area è tornata a crescere. Il fatto che il prossimo 21 ottobre i rappresentanti dei due paesi balcanici si incontreranno a Bruxelles per trovare una soluzione permanente alla questione delle targhe automobilistiche è una buona notizia, anche se gli attriti permangono. Secondo i serbi, per esempio, la missione di peacekeeping della Nato Kfor è ampiamente pervasa da un senso di disprezzo verso l’ex nemico. E’ un dato che dovrebbe farci riflettere, visto che l’Italia è uno dei principali contributori della missione e deve tutelare importanti interessi politici ed economici in tutta l’area. 
 

Qual è il peso effettivo del nostro paese nei Balcani? 

 

Verso la fine della guerra fredda fummo in prima linea per avvicinare la Jugoslavia al campo occidentale. Al tempo i nostri governi nutrivano la seria ambizione di poterci trasformare nel principale interlocutore della federazione slava. Poi con lo scoppio delle guerre jugoslave fummo costretti per varie ragioni a compiere un’avvilente piroetta, partecipando al bombardamento delle città serbe dopo essere stati a lungo favorevoli alla Jugoslavia unita e guidata proprio da Belgrado. Discorso analogo per l’Albania, con cui fino agli anni Novanta potevamo vantare un considerevole legame, complice il nostro soft power di matrice culturale e linguistica. Nell’ultimo ventennio, invece, abbiamo accettato passivamente che fossero Turchia e Arabia Saudita a stendere la loro influenza sul paese delle Aquile. Convinti che tutto sommato a noi bastasse conservare ottimi rapporti commerciali con Tirana e totalmente ignari del fatto che la nostra sicurezza passa anche attraverso la necessità di controllare l’altra sponda dell’Adriatico. In entrambi i casi abbiamo dilapidato un capitale geopolitico immenso, nell’indifferenza generale. Il risultato è che oggi nei Balcani contiamo davvero poco. Per invertire la tendenza, un obiettivo alla nostra portata potrebbe essere quello di diventare i paladini di Serbia e Albania nei confronti dell’Ue. 

Cosa pensano Stati Uniti e Cina di nuovi eventuali allargamenti dell’Ue?

 

Qualsiasi ulteriore allargamento dell’Ue sarà osteggiato in primo luogo dagli Stati Uniti, che anche sotto il presidente Joe Biden sono impegnati a disarticolare la presunta egemonia tedesca sul Vecchio Continente colpendo tutte le iniziative che dal loro punto di vista potrebbero consolidare la presa di Berlino sui paesi europei. Non è un mistero che la Germania abbia sempre seguito la strategia della balcanizzazione della regione in molti Stati piccoli e fragili, per poter stabilire più facilmente la propria influenza, e che l’allargamento dell’Ue si presti anche a questo scopo. Per la Cina invece vige un discorso differente. Tutta l’area compresa tra il Baltico e il Mar Nero è una regione congeniale allo sviluppo dei suoi progetti infrastrutturali incarnati dalle nuove vie della seta. In particolare, agli occhi di Pechino la penisola balcanica è uno snodo cruciale per far confluire verso il Nord Europa le proprie merci scaricate al porto greco del Pireo, di cui è proprietaria da qualche anno. Il timore delle cancellerie europee è che nel lungo periodo la Cina voglia minare la stabilità del Vecchio Continente creando una sua area d’influenza alternativa a quella americana, che oggi è ancora largamente dominante. In termini strategici il vero dato su cui noi europei dovremmo riflettere è se un prossimo allargamento dell’Ue non rischi di annacquare ancora di più il progetto comunitario, che già oggi non gode di buona salute. Ciò che ci occorre è un nucleo geopolitico molto forte e coeso per navigare con successo nei mari in tempesta che ci circondano.