Lavoro

Smartworking dal borgo e vita di campagna: il futuro

30
Maggio 2020
Di Piero Tatafiore

Andrà tutto bene. Uno  slogan consolatorio che ha contraddistinto i primi momenti dell’emergenza. Tipico dell’animo umano è il convincimento che va anche contro la ragione, un meccanismo di salvaguardia per la mente e il cuore. Ora, che la morsa del Covid19 sta allentando la presa, bisogna ripartire, riaprire, cercando di capire da un lato cosa imparare dall’eccezionalità di questa situazione, dall’altro cosa fare per convivere con il virus che, pare oramai certo, non sarà debellato facilmente e in breve tempo. A volerla vedere positivamente, il lockdown ha fatto da acceleratore ad alcuni processi che in Italia si trascinavano stancamente senza significativi impatti né sul lavoro né sull’economia. E invece oggi lo smartworking è la normalità, applicazioni come Zoom, Teams, Meet, Lifesize sono diventate popolari come le app del meteo.

Un salto culturale di anni (in Italia pure di decenni) avvenuta in pochi giorni: magie della costrizioni. Ora il tema è come sfruttare i vantaggi che lo smartworking comporta. A cominciare dalla qualità della vita e dalla possibilità di vivere e lavorare in uno degli oltre 7200 borghi italiani sotto i 15.000 abitanti, una prospettiva sempre più concreta, come ha ben scritto Jaime D’Alessandro su Repubblica. Lavorare in smart working da un borgo avrebbe benefici per l’inquinamento (minore pendolarismo), per la qualità della vita e per le tasche di chi sceglie location diverse rispetto alle grandi città: a Milano una casa in una zona come Maggiolina-Istria costa circa 4.500€ al mq, mentre un affitto per un trilocale da 80mq si aggira sui 1.500€ al mese. La stessa casa a Boffalora sul Ticino, appena fuori Milano, costa rispettivamente 1.500€ al mq e 400€ al mese, e magari hai pure il giardino (fonte: immobiliare.it). In questo senso il venturo 5G potrà essere determinante, fornendo ovunque la tecnologia necessaria per svolgere ovunque al meglio il proprio lavoro. Interi borghi potrebbero tornare a vivere, posti spesso splendidi, ma abbandonati da chi cerca lavoro laddove si trova. E’ un cambio di paradigma che risulta ancora più importante quando si consideri l’enorme patrimonio culturale, storico e anche economico che anima i piccoli centri. Secondo ADSI, l’associazione che raggruppa le dimore storiche italiane, più della metà delle circa 14000 dimore storiche italiane (ville, castelli, palazzi) si trova nei comuni sotto i 20.000 abitanti e addirittura un terzo nei piccoli borghi sotto i 5.000. Un patrimonio enorme che attrae ogni anno 45 milioni di visitatori e che sta soffrendo in maniera importante a causa delle restrizioni del Lockdown con una previsione di 1,8mld€ di ricavi in meno e 30.000 posti di lavoro a rischio (fonte: Fondazione Bruno Visentini)  ma che potrebbe essere un volano di crescita e di sviluppo per i piccoli borghi se adeguatamente supportato in questa fase di riaperture. Del resto il nostro patrimonio diffuso è noto ovunque al punto che persino il Telegraph ha perorato la causa del riequilibro territoriale tra le metropoli e i borghi sfruttando le connessioni veloci, a cominciare dal 5G, e il ritorno ai lavori artigianali che la manutenzione delle dimore storiche garantisce. Se vogliamo che vada davvero tutto bene dovremmo ripartire da qui.

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