Cultura

Inferno, la mostra alle Scuderie del Quirinale, curata da Jean Clair

27
Novembre 2021
Di Alessandro Caruso

Chiedersi perché valga la pena oggi parlare d’inferno non è scontato. La mostra Inferno alle Scuderie del Quirinale (fino al 9 gennaio), curata da Jean Clair con Laura Bossi, propone una spiegazione più profonda rispetto alla celebrazione dantesca. Cosa è Inferno? Tralasciando la lecita storicizzazione contemporanea di tutto ciò che concerne l’abietto, l’escrementizio, il putrido, l’immondo (per citare Clair), si potrebbe dire senza esagerazioni che viviamo tutti un inferno contemporaneo. Alla guerra, flagello storico dell’umanità che causa migliaia di vittime civili ogni giorno, si è aggiunto il disastro climatico e ambientale; ultima arrivata una pandemia che riporta all’attualità l’estinzione della specie, un tema non più solo letterario. Il sistema ci nutre della facoltà di credere all’immortalità presente, «credendo di avere acquisito un diritto alla salute perpetua, l’uomo si crede potenzialmente immortale» – scrive Jean Clair –. Il cadavere che lascia dietro di sé quindi non è più niente. Più niente che lo riguardi ancora, niente per cui abbia qualche rispetto» (da saturno a satana, dal catalogo, Skira, 2021).

Abituati, illusi e addormentati subiamo ogni giorno le conseguenze del mondo in cui siamo stati gettati, assuefatti a una logica di asservimento che somiglia tanto a quella di un eterno contrappasso terreno. Non preoccupati abbastanza perché ciechi di fronte ad un’alternativa diversa dall’abitudine. Tuttavia “riveder le stelle” è ancora possibile: diamo agli artisti la possibilità di fare luce sul futuro che si preannuncia, non dei più luminosi ma sul quale l’arte può ancora riporre un’incondizionata fiducia.

Inferno è il titolo della mostra che dalla sua apertura sta registrando incredibili numeri di visitatori. Già nel 2006, mentre ancora l’eco del post-human risuonava su scala planetaria, Clair aveva proposto una mostra con lo stesso tema ad alcuni musei senza ricevere consensi. Oggi più che mai l’inferno torna pop e l’anniversario dantesco ha consentito finalmente il concretizzarsi della grande mostra.

La mostra si struttura su due sezioni, una dedicata nello specifico a Dante e al suo inferno narrato a partire da suggestioni tematiche e iconografiche, l’altra basata su un inferno simbolico e contemporaneo. Al primo piano ci si imbatte, quindi, in un maestoso calco in gesso de La porta dell’Inferno di Rodin (1880-1917), nel Giudizio Finale di Beato Angelico (1425), ne La voragine infernale di Botticelli (1481-1488) proveniente dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, ne Le tentazioni di Sant’Antonio Abate di Jan Brueghel (1601), in alcune stampe – Herbert List (1949) e Robert Doisneau (1952) – nel ciclo di illustrazioni di Federico Zuccari e Giovanni Stradano (tardo Cinquecento), nel celebre Virgilio e Dante di Gustave Doré (1861) in dialogo con la fiabesca serie dantesca di Miquel Barceló (2001-2002). Non mancano, inoltre, una sezione di considerevoli manoscritti della Divina Commedia.

Nel secondo piano ha inizio una metamorfosi che dall’immagine del diavolo giunge alla simbolizzazione più contemporanea dell’inferno. Un teatrino di pupi siciliani accoglie non lontano dal celebre bulino di Dürer Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo (1513), poi alcuni rari disegni di Victor Hugo e la serigrafia su Baudelaire di Odilon Redon (1891).

E poi un excursus verso un inferno diverso da quello dantesco, pagano e, forse, il peggiore di tutti. È la grande sezione dell’Inferno in terra che si dirama negli orrori urbani, industriali, psichici, bellici. Dalle Carceri di Piranesi (1744-1761) alla serie di disegni di Paul Richer, – quasi uno studio sul corpo in preda a crisi isteriche (1881) – si giunge al trionfo devastante della guerra dove si compie e si conclude la metamorfosi infernale: I disastri della guerra di Goya (1810-1823) campeggiano nella sala insieme alle acqueforti di Otto Dix (1924). Dalla guerra, l’inferno divenuto concreto culmina con la simbolizzazione reale e arriva allo sterminio novecentesco, sua ultima degenerazione. Compaiono le bozze di “Se questo è un uomo” (1958) di Primo Levi. Ma ecco che verso la fine dell’esposizione riapparire il monito dantesco: è una torcia per uscire dall’inferno scabroso nel quale ci siamo addentrati. La speranza, infine, riecheggia nelle opere di Anselm Kiefer (1995, 2001) e nei pastelli di Etienne-Léopold Trouvelot (1874) sulla Via Lattea e la nebulosa Omega. E, in fondo, non si poteva trovare modo migliore per “uscire a riveder le stelle”. 

Photo Credits Immagine Interna: Boris Taslitzky, Le petit camp à Buchenwald, 1945. Parigi, Centre Pompidou. INV AM 2743. Copyright 2021 RMN Grand Palais – Boris Taslitzky by SIAE 2021.

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