Cultura

Maschi adolescenti: sono meglio di quello che sembra, ascoltiamoli

19
Aprile 2024
Di Ilaria Donatio

Cos’è la boyhood? Nella lingua italiana non esiste una parola che sintetizzi la complessità della condizione di essere un ragazzo nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza e poi all’età adulta. E la mancanza lessicale traduce anche l’invisibilità  di questa fase di crescita.
Da questa assenza è partita Romana Andò, autrice di “Bravi Ragazzi” (Giulio Perrone editore) e docente di Sociologia dei processi culturali alla Sapienza: per dare visibilità e voce alla boyhood contemporanea.

Boyhood è anche il titolo di un vecchio film sorprendente di Richard Linklater: per dodici anni, ogni anno la crew del film si è trovata, qualche settimana, in Texas a girare nuove scene, seguendo la crescita dei due giovanissimi che da bambini diventano ragazzi e poi adolescenti. Dodici anni sono esattamente il tempo che negli Stati Uniti separa l’inizio della scuola dell’obbligo, fino alla graduation, termine delle scuole superiori. E dodici sono gli anni che si srotolano nel film, seguendo la boyhood di Mason: un ragazzo come tanti, al quale non accade nulla di particolare. Semplicemente vive e cresce.

Leggere il libro di Romana Andò – una vera raccolta di immagini, frammenti di canzoni, narrazioni e voci di ragazzi – e rivedere questa pellicola unica nel proprio genere, stimola una riflessione complessa sul tempo della crescita. In particolare degli adolescenti.

Un tempo di solito scandito e rappresentato da snodi simbolici: il primo giorno di scuola, il primo amore, il primo bacio. Oppure da crocevia dolorosi: la solitudine, la morte di chi si ama, l’esclusione. Ben lontano, dunque, dal tempo reale che – come diceva Freud – si attacca a cose apparentemente marginali: conversazioni interrotte, comunicazioni deludenti, rapporti che si immaginavano diversi e che il tempo restituisce per quelli che sono. Insomma, la vita vera.

Ma a differenza dei paesi anglosassoni, in cui i boyhood studies nascono come ulteriore spazio di riflessione all’interno del più ampio campo dei men’s studiesin Italia non esiste neanche una tradizione di studi sul tema. E in questo vuoto, l’unica a essere emersa nel dibattito pubblico è stata la definizione di “mascolinità tossica”: un’etichetta che deve la sua fortuna ai movimenti #metoo, per dare un nome alla violenza maschile.

Ma definire una parte con il tutto è innanzi tutto fare un torto al tutto. Argomenta l’autrice: ne “Il secondo sesso”, uscito in Francia nel 1949, Simone de Beauvoir contestava la “femminilità come destino biologico”, rivendicando quanto la condizione femminile fosse piuttosto una “costruzione culturale e sociale” e che, in quanto tale, potesse essere modificata.

Questo vale anche per la condizione maschile.

La scelta di approfondire la natura culturale della maschilità, scrive Andò, permette di “uscire dai vecchi modelli di mascolinità”. E se la scuola e il mondo adulto sembrano riluttanti a leggere le differenze che stanno emergendo in termini di definizione della nuova boyhood, molti contenuti – dalle serie tv alla musica rap ai contenuti sui social media – stanno invece offrendo spazi interessanti di identificazione per i ragazzi adolescenti. “Di sottrazione dell’uomo dalla violenza” e della “donna dalla sottomissione”.

A favore della reciprocità, unica dimensione in cui identità diverse possono entrare in  una relazione libera.